Stavolta il tema è serio, e consiglio di leggere l'articolo a tutte le mamme che lavorano piene di sensi di colpa e di inadeguatezza.
l'infanzia estrema CREA IL nobel?
Tuteliamo fin troppo i nostri bambini.LA STORIA DI CAPECCHI FA RIFLETTERE di Concita De Gregorio
Senza nulla togliere, per carità di Dio, alle maestre che ci convocano per segnalare che il bambino treenne tra i colori predilige il marrone, segno chiaro di un disagio nascosto. O alle psicologhe di sostegno messe a disposizione dalla scuola, meritoria decisione, che chiamano per segnalare che il ragazzo dovrebbe fare i compiti, "possibilmente accompagnato dalla presenza di un genitore, cosa che gioverebbe moltissimo al maturare di un senso di autonomia responsabile", pazienza se l'orario dei compiti coincide con quello del lavoro dei genitori. Senza dubitare del fatto che "prima di emanciparsi dalla famiglia un ragazzo ha bisogno di sentirsi accettato anche nei suoi limiti, senza inclusione non c'è esclusione possibile", ovvio, non si invita un 24enne ad andare a vivere da solo se prima non gli si è dimostrato quanto sappiamo accettare, a- mare l'immondizia che produce e che marcisce nella sua indifferenza sotto il letto. Del tutto consapevoli che ogni figlio, ne abbiate due, tre, quattro o sette, ha bisogno del suo "tempo di attenzione esclusivo", che prevede attività da fare con lui e lui solo, in assenza dei fratelli, menù differenziati perché quello che non ama il formaggio non si senta sottostimato per via del fatto che oggi c'è la parmigiana, e, nel weekend, programmi di cinema o teatro o gioco studiati secondo l'età (il gioco insieme ai genitori, va da sé, anche la tv si deve guardare insieme e insieme ascoltare la musica, danzarla, ripeterla magari, improvvisando in un meraviglioso creativo gioco). Ecco, seriamente coscienti di tutto questo vorremmo ripercorrere con voi le tappe salienti della biografia del premio Nobel Mario Capecchi, l'uomo che ha "aperto la scatola nera delle cellule staminali", dicono i giornali, per cercare l'origine dell'Alzheimer e del cancro. Capecchi è nato in Italia da una madre che lui definisce bohémienne, un'americana colta, ricca e ribelle, figlia di miliardari americani dotati di vari talenti. Il padre era un ufficiale fascista morto in guerra con l'aviazione di Mussolini. Vive solo con la madre in uno chalet in Alto Adige. Quando ha tre anni e mezzo - tre e mezzo, come il bambino che preferisce il marrone - la mamma viene deportata a Dachau, prigioniera politica. Lui è affidato a dei contadini che prendono in cambio tutti gli averi della madre. Quando i soldi finiscono, lo mettono alla porta. Cinque anni. A cinque anni Capecchi diventa un bambino di strada, vive con "bande di teppisti e altri orfani", mangiando non si sa cosa, dormendo non si sa dove, scampando alla morte e alle malattie non si sa come. L'inverno in Sud Tirolo è anche freddo. Niente complessi multivitaminici per stimolare l'appetito, si suppone. Niente vaccini. Fino a nove anni vagabonda, arriva a Reggio Emilia. Lo ricoverano in ospedale per malnutrizione. In ospedale gli danno, ogni giorno, una tazza di caffè e una crosta di pane per cui non guarisce. "Dormivamo nudi sul materasso". Niente piumini di vere piume atossiche, niente umidificatore dell'aria con gocce di pino. La madre lo ritrova e lo riporta in America. "Non ha mai superato il trauma di Dachau, ha vissuto in un mondo di fantasia fino alla morte". Lei in un mondo di fantasia, lui in una comunità quacchera dove si iscrive alla terza elementare senza essere mai andato a scuola in vita sua e senza ovviamente conoscere la lingua. Sessant'anni dopo il Nobel. Capecchi dice che non sa se il premio sia arrivato "nonostante o grazie alle esperienze della mia infanzia". Non lo sappiamo neanche noi, sarebbe bello avere il tempo di rifletterci, ma oggi pomeriggio prima di andare in ufficio dobbiamo ripassare l'area del trapezio, base maggiore più base minore, eccetera, sperare di trovare "Sommo luminescente" nella bustina quotidiana dei Gormiti perché il piccolo è frustrato dal fatto che gli altri compagni ce l'hanno e lui no, passare dalla scuola di musica a sentire se il corso di coro è adatto alle attitudini vocali del grande o se sia meglio (per lui, naturalmente) spostarlo alla lezione del sabato pomeriggio e addio weekend. Però domenica mattina, chiusi in bagno, ci pensiamo meglio alla faccenda del "nonostante o grazie". Promesso, ci pensiamo.
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